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“Appena ho saputo che Paideia stava avviando il progetto per supportare i profughi ucraini, ho subito dato la mia disponibilità, ho detto ‘se serve io ci sono’. In quel momento era un modo per sentirmi utile.”
Quando nel mese di marzo abbiamo avviato il progetto Emergenza Ucraina, per cercare di dare supporto alle famiglie in fuga dalla guerra, abbiamo capito che sarebbero state necessarie delle risorse dedicate e, fin dai primi giorni, abbiamo avuto la fortuna di poter contare su Paola.
La collaborazione di Paola con Paideia è attiva da più di quindici anni. “Sono arrivata come volontaria molti anni fa e ho potuto fare diverse esperienze, questo mi ha consentito di conoscere il la disabilità allargando lo sguardo a tutta la famiglia.”
Dopo pochi giorni a Paola si è affiancata Irene, 27 anni, nata in Ucraina e in Italia da 4 anni. Paola e Irene da quattro mesi lavorano ogni giorno fianco a fianco, come operatrici, per supportare le famiglie ucraine con bambini con disabilità di cui Paideia si prende cura. “Cerchiamo di renderci utili – spiega Irene – ed essere per le famiglie un punto di riferimento. A volte ti senti come se fosse un lavoro 24 ore su 24, le famiglie qui non conoscono nessuno a parte noi e dunque per loro ci siamo sia per risolvere questioni burocratiche, visite mediche o emergenze pratiche, ma anche per sapere come funzionano mezzi pubblici o quali sono le mostre gratuite la domenica. Una parte importante riguarda l’obiettivo di far vivere loro qualcosa durante la loro permanenza in Italia, qualcosa che non li faccia sentire troppo isolati.”
Paideia, fin dai primi giorni, ha strutturato un progetto che potesse essere d’aiuto alle famiglie arrivate in Italia, con attività di ospitalità, supporto economico e una risposta alle diverse necessità presenti. “Quello di cui mi sono resa conto – racconta Paola – è che rischiamo di pensare genericamente ‘sono arrivati per la guerra’, e quindi ci si fa l’idea che questo valga per tutti. Invece ogni famiglia viene da un’area geografica differente e ha storia e aspettative diverse rispetto al soggiorno in Italia. Ci sono persone che arrivano da zone distrutte e occupate, da cui sono partite quasi senza capire, senza sapere dove sarebbero andate. Una nonna con un nipotino sordo è scappata a piedi, portandosi dietro uno sgabellino pieghevole per sedersi e riposare di tanto in tanto. Ma ci sono anche persone che arrivano da zone più tranquille, che oggi stanno cercando risposte sulla disabilità del loro figlio. Uno degli aspetti che per me è più forte, più impegnativo emotivamente, è pensare che parte della loro famiglia è là, i mariti che magari combattono, o i figli già grandi che non possono venire via, i loro amici, i genitori.”
“Effettivamente – conferma Irene – le persone che sono qui con noi tendono a non parlare molto della guerra. Una mamma ne parla, racconta che la loro città adesso è sotto i russi, hanno cambiato insegne, hanno fatto pressioni per cambiare passaporto, lei la vive abbastanza male perché il marito è a casa e ha come il senso di una famiglia strappata. Sta qui, può mangiare e dormire senza allarmi ma è molto difficile come stato d’animo. Nella loro vita la guerra è presente anche se sono qua. Perché chiamano le persone a casa e si sentono le bombe.”
“Come Paideia – spiega Paola – fin dall’inizio abbiamo cercato di offrire sostegno per la disabilità dei bambini e per l’organizzazione della loro vita qui. Non abbiamo esperienza di lavoro con profughi, con le persone che scappano dai conflitti, ma cerchiamo di aggiornarci, formarci, abbiamo fatto un corso con psicologi che lavorano con migranti, ci confrontiamo con gruppi di operatori.”
Il concetto del tempo, in questa fase, risulta fondamentale. “Per gli Ucraini questo è un tempo sospeso, dilatato, non si capisce che tempo sarà, quanto tutto questo durerà, la progettualità è incerta. Se chiedi se torneranno non sanno darti una risposta. Magari vorrebbero tornare, ma è un ‘torno appena posso’, non sappiamo cosa succederà il mese prossimo. Questo rende il nostro lavoro un poco più difficile perché con il pensiero ‘magari torno tra un mese, forse la situazione migliorerà’ è difficile fare progetti, pensare a integrarsi, ma nello stesso tempo queste persone non sono in vacanza.”
“Abbiamo strutturato – racconta Irene – una serie di attività per le famiglie. Ai bambini offriamo alcune ore di attività ludica a settimana e alcune attività sportive. E mentre i bambini giocano, gli adulti fanno lezioni di italiano, con un corso di quattro ore a settimana. Ci sono persone, come Masha, tra le prime ad arrivare, che sta aiutando in alcuni lavori manuali al Centro. Monta le bomboniere, aiuta a preparare materiale per i giochi o per i laboratori, è felice di potersi rendere utile così come altre persone sarebbero felici di poter trovare lavoro. Di recente abbiamo anche organizzato una cena italo-ucraina, che è stato davvero un bel momento di socializzazione e scambio.”
“In questi mesi – dice Paola – ci siamo trovate in situazioni complesse, penso a quando una ragazza è stata male e siamo corsi in Pronto Soccorso con lei e sua mamma. È poi stata operata di appendicite e Irene ha passato molto tempo in ospedale per starle accanto e tradurre. C’è stata la necessità di reperire uno psicofarmaco importante per il quale in Italia sono necessari esame del sangue periodici, così devi metterti a pensare come risolvere problemi a volte urgenti, di cui non conosci a priori la soluzione. Ci si confronta con abitudini diverse e con imprevisti. Si tratta di inventare soluzioni creative e quando funzionano questo ti dà la motivazione per andare avanti.”
“Una cosa bellissima, invece, riguarda i bambini che hanno iniziato a fare cose che prima non facevano. Penso a un bambino in particolare che ha fatto alcune sedute dove i terapisti hanno insegnato alla mamma a fare cose con lui, prima faticava a camminare in punta dei piedi, adesso utilizza tutta la pianta. È stato molto emozionante, lui si aggrappa al bordo del tavolo facendo un passo e mezzo da solo, prima non lo riusciva a fare. O una bimba che venendo al Centro ha cominciato a fare cose come tenere correttamente il cucchiaio o provare a mangiare da sola. C’è la sensazione di stare meglio e questo è veramente molto prezioso.”
“Ci sono momenti – sottolinea Paola – in cui senti di fare veramente squadra, tra persone che magari non conosci personalmente, ma che hanno un obiettivo comune. Ed è bello. È una questione di umanità. È l’emozione che ho avuto già tante volte in Paideia con le famiglie che negli anni ho conosciuto. Le famiglie arrivate dall’Ucraina, soprattutto all’inizio, avevano paura che i loro bambini disturbassero, invece hanno capito che i loro bambini possono essere loro stessi. Sono rimasti colpiti dal fatto che a noi piace giocare con i loro figli, sentono che qui sono accolti e questo è davvero molto importante.”
“I momenti più belli – racconta Irene – sono quelli quando i genitori ti ringraziano per le cose che hai fatto per i loro bambini. Sono davvero raggianti, si sente una complicità, un legame. Io mi sento fortunata di poter collaborare e sono molto riconoscente che Paideia si sia presa carico di tutte queste famiglie. Il mio Paese sta soffrendo e non sono molto propensa a fare domande come ‘a casa come va?’ perché mi mette in difficoltà, ho tante persone care là. Ma sono riconoscente che Paideia dedichi risorse a questo progetto e che mi dia la possibilità di fare la mia parte.”