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Sara: “accogliere significa prima di tutto non giudicare”

Accoglienza.
Una parola così ricca di significato, che porta con sé tante sfaccettature, per noi in Paideia rappresenta uno dei punti fermi delle attività che portiamo avanti ogni giorno.

L’accoglienza, infatti, è il primo passo: quando una famiglia si presenta a noi, su suggerimento dei servizi sociali o grazie al passaparola, ci attiviamo per una prima telefonata per entrare maggiormente nel merito della richiesta. Laddove ci sia possibile fornire un aiuto, viene proposto un primo incontro che si propone di esplorare maggiormente le necessità e conoscere più nel dettaglio il contesto di ciascuna famiglia. Dopo un confronto con l’equipe interna e con i servizi socio-sanitari della rete territoriale proponiamo un progetto specifico che riguarda non solo il bambino o la bambina, ma tutto il suo sistema familiare.

Ma che cosa significa accogliere una famiglia che incontra la disabilità?

Lo abbiamo chiesto a Sara Cavallera, assistente sociale che lavora in Paideia dal 2007 e che in questi anni, insieme alle colleghe dell’area, ha rappresentato il primo contatto per tantissime famiglie.

Accogliere significa prima di tutto non giudicare. Vuol dire avere una mente aperta: ti incontro, mi metto in ascolto, sono curioso di conoscerti, la mia mente e il mio cuore devono essere pronti ad accoglierti ma in una dimensione di assenza di giudizio. Questo è molto importante, anche in una dimensione di valorizzazione rispetto al ruolo dei genitori. Spesso arrivano sentendo di non avere nulla, invece vanno aiutati a vedere che loro ci sono e che hanno risorse da tirare fuori.”

“A giugno – racconta – saranno per me 17 anni in Paideia. Dei primi giorni del mio arrivo ricordo il contesto accogliente, il tempo dedicato alle famiglie, il caffè insieme e le sfide da affrontare, cercando di capire quali fossero gli strumenti da offrire. Ricordo, in particolare, una caratteristica: non ci fermiamo a quello che abbiamo, ma dobbiamo cercare di capire come possiamo migliorare, per essere pronti a rispondere ai bisogni che arrivano. Questa è una cosa che poi abbiamo portato avanti nel tempo: i cambiamenti qui possono essere veloci e da un certo punto di vista può essere faticoso, ma c’è una logica costruttiva, per dare risposta alle necessità che le famiglie ci portano.”

"Lavorando in rete si possono raggiungere risultati migliori"

Uno dei punti fermi, fin dai primi anni, è legato al tema della collaborazione. “Lavoravamo già allora molto con i servizi sociali, con la logica che lavorando in rete – e non da soli – si possono raggiungere risultati migliori nell’interesse delle famiglie. Ricordo in particolare gli affidi ponte, che hanno portato a momenti di scambio molto efficaci. E, con emozione, penso ai primi bimbi incontrati: alcuni di loro oggi sono grandi, maggiorenni, è bello vedersi in occasione di feste o eventi che ci permettono di ritrovarci.”

Oggi il lavoro di scambio e sinergia con i servizi socio-sanitari del territorio, da sempre alla base del modello operativo di Paideia, porta con sé alcune criticità. “Accogliamo lo smarrimento di genitori che talvolta non si sentono sostenuti dalle istituzioni per i lunghi tempi di attesa per ottenere una diagnosi ma allo stesso tempo ci confrontiamo con gli operatori dei Servizi di NPI e dei Servizi Sociali di cui cogliamo la fatica per non riuscire a rispondere adeguatamente alle necessità delle famiglie, a causa principalmente del progressivo e drammatico depauperamento delle risorse professionali. Lavoriamo cercando di mediare e di trovare comunque delle soluzioni per le famiglie. Ma non è facile”, ammette Sara.

E, rispetto al passato, sono crescenti le situazioni di fragilità che arrivano. “Incontriamo genitori davvero stremati, che hanno perso il controllo sulla propria vita, con una grande sofferenza dal punto di vista psicologico. Il nostro compito è quello di valorizzarli. Quindi ti accolgo, non ti giudico, ti offro un supporto con uno sguardo integrato. Anche quando sembra che siano limitate, le risorse ci possono essere, ci vuole un aiuto per individuarle e tirarle fuori.”

"Poter essere di aiuto agli altri è una grande soddisfazione"

Che cosa significa dedicarsi a questo lavoro, ogni giorno? “Può essere molto faticoso – spiega Sara – perché quel che ti raccontano le persone che incontri possono risuonare rispetto a te con forza. Ma il fatto di essere d’aiuto agli altri, il poter alleggerire le persone rispetto al loro carico è una grande soddisfazione.”

Alcune situazioni di fatica sono quelle che riguardano chi può contare su pochi supporti. “Spesso incontriamo mamme sole che si trovano a dover gestire la quotidianità con la disabilità del loro bambino. Sono sole dal punto di vista familiare, di coppia, ma anche istituzionale: talvolta sono costrette ad aspettare un anno, un anno e mezzo per una diagnosi, trascorrendo un lungo periodo di disorientamento. Sono quindi situazioni di fragilità in cui le difficoltà del sistema socio-sanitario possono rappresentare un peso in più. Oltre a questo sicuramente abbiamo registrato richieste per situazioni economiche sempre più complicate, aggravate in seguito alla pandemia. E sono diversi i casi di doppia diagnosi di disabilità in famiglia, così come di affaticamento dei fratelli o delle sorelle, per i quali da anni abbiamo impostato un sistema di supporto dedicato.”

"Il gruppo diventa un'occasione di valorizzazione"

L’orientamento, in particolare, è un servizio fondamentale per tanti genitori. “Le richieste, nel tempo, sono sempre quelle: quali sono le informazioni che mi servono? Come mi oriento nel mondo della disabilità? Non è facile perché è un lavoro che richiede molto aggiornamento e non esiste talvolta una risposta immediata, ma ragioniamo insieme, stimoliamo l’incontro con le istituzioni. Col tempo abbiamo portato questo lavoro verso una dimensione anche di gruppo: momenti di incontro di questo tipo, che si presterebbero anche a essere più passivi, in realtà diventano occasioni di scambio: io ti racconto cosa ho imparato, ti valorizzo, mi faccio raccontare da te cosa sai tu, me lo dici e vieni valorizzato nella tua esperienza.”

La parola chiave, in questo caso, è riconoscimento. “Vuol dire che tu ti rendi conto che mi risuona quella fatica che mi porti, è un riconoscimento reciproco di fatica, ma anche di risorsa. E in questo caso il gruppo diventa un’occasione di valorizzazione. Perché accogliere è anche questo.”