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Elvira: “In ogni bambino c’è un talento che lo rende unico”

La prima parola che mi viene in mente se penso a Paideia? Sicuramente ‘famiglia’. Perché è il focus del nostro lavoro: l’attenzione a chi, insieme al bambino o alla bambina con disabilità, vive una dimensione di difficoltà e di fragilità. Poi penso ad ‘accoglienza’. E a ‘condivisione’”. Elvira annuisce e sorride, mentre beviamo un caffè e ripercorriamo i suoi primi passi in Paideia. Terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva, è stata tra le prime a lavorare al progetto del Centro Paideia.

Sono stata chiamata – racconta – e mi hanno prospettato questo progetto in cui ci sarebbe stata la possibilità di integrare il lavoro con le famiglie rispetto all’area riabilitativa. Ne sono stata entusiasta: da qualche anno avevo aperto il mio piccolo studio ma sentivo che veniva a mancare nella quotidianità un lavoro integrato rispetto al sostegno alle famiglie. Dall’altra ero un po’ spaventata di perdere le mie autonomie professionali, ma la cosa bella è che ho potuto portare in Paideia le mie idee e i miei sogni, per poter lavorare con i bambini nel miglior modo possibile. La stanza multisensoriale, ad esempio, è stata una delle prime cose di cui abbiamo parlato e oggi è finalmente realtà”.

"Tutto è stato pensato per essere funzionale alle differenti necessità dei bambini"

Per arrivare a concepire il Centro Paideia come si presenta oggi, Elvira e gli altri terapisti coinvolti nel progetto hanno dedicato molto tempo alla progettazione e al confronto. “Insieme alle famiglie siamo stati molto coinvolti nella progettazione del Centro: dalla scelta di utilizzare un certo tipo di luce o di gestire lo spazio in un certo modo, tutto è stato pensato per essere funzionale alle differenti necessità dei bambini. Del periodo precedente all’apertura ricordo un grande desiderio di mettermi in gioco per lavorare insieme ad altre persone, sapendo che l’obiettivo è comune. Ed è bellissimo sentire che le competenze dei colleghi possono insegnarti tanto ogni giorno”.

E se invece pensiamo al Centro oggi? Elvira, come potremmo raccontare il tuo lavoro quotidiano, con parole semplici?

Il neuropsicomotricista è colui che si ingaggia in una relazione affettiva e positiva con il bambino affinché si possano promuovere tutte le aree del suo sviluppo che possano essere osservate come fragili. É un lavoro dove c’è una dimensione relazionale importante ma anche un lavoro di mediazione corporea”. Elvira mi guarda e sorride. “Non ce l’ho fatta, vero?

Quasi.

Ok, ci riprovo. Diciamo che nelle nostre attività il bambino si ingaggia attraverso il corpo, i sensi, per poter migliorare rispetto ai suoi punti di debolezza, ai suoi punti di fragilità. É fondamentale che sia una dimensione ludica perché solo attraverso il gioco il bambino ha la possibilità di attingere a delle strategie, a delle risorse. Noi utilizziamo molto spesso il gioco simbolico, in cui il bambino prova a fare finta e immaginare di compiere delle azioni che hanno uno scopo pur non avendo quell’oggetto. Ad esempio, io posso prendere un pennarello e fare finta che sia un telefono, posso prendere un bastoncino e fare finta che sia un ghiacciolo. Nel gioco simbolico il terapista aiuta il bambino ad avere un’idea, ma non gliela fornisce. Il bambino parte con una sua intenzionalità che può essere ‘voglio giocare coi pesci’ e la capacità del riabilitatore è partire da quella sua intenzione spontanea e arricchirla con altre idee e azioni. Quando con un bambino con sindrome dello spettro autistico si arriva a questo livello – essere agganciati in una dimensione di attenzione condivisa con l’altro – si è di fronte a un grande obiettivo raggiunto. Il riabilitatore non è colui che crea l’idea ma colui che favorisce un mezzo affinché il bambino arrivi a quell’idea, in questo senso il gioco non è un fine ma un mezzo”.

Elvira: “In ogni bambino c’è un talento che lo rende unico”

E i genitori? Che ruolo hanno in tutto questo?

Il ruolo dei genitori è fondamentale. Stamattina, ad esempio, ho incontrato due papà che si lasciano coinvolgere molto nel gioco, rendendosi conto che nel momento in cui io faccio una cosa loro poi la possono riproporre a casa. Inizialmente il genitore vede i miglioramenti che si vengono a creare nel setting psicomotorio, ma il vero obiettivo è che lui non sia soltanto spettatore e che sia attivamente coinvolto perché quella dimensione ludica possa trasferirla anche in ambito familiare. Un tempo i genitori non erano partecipi, mentre oggi nella maggior parte delle situazioni – non tutti, ma c’è un tempo per ogni cosa – c’è una dimensione di partecipazione attiva e di riflessione condivisa sugli obiettivi”.

"Siamo in contatto con persone che vivono una dimensione di grande fragilità e sofferenza"

L’inclusione dei genitori nel percorso a fianco del bambino o della bambina con disabilità è alla base del modello Family Centered Care proposto da Paideia. “Significa offrire uno sguardo a tutta la famiglia, perché possa sentirsi meno sola nell’affrontare l’incontro con la disabilità. Siamo in contatto con persone che vivono una dimensione di grande fragilità e sofferenza. Ci sono famiglie che non hanno più una vita, persone che sono soltanto più ‘mamme’ o ‘papà’, che dedicano tutte le energie al loro figlio o alla loro figlia e rinunciano ad altre identità. E invece è importante poter recuperare degli spazi di benessere per poter avere le energie per essere anche madri e padri. Anche, non ‘soltanto’. Mi sembra che la dimensione del Centro possa offrire opportunità per sentire un po’ meno la vergogna e un po’ meno la solitudine, sentendosi sostenuti e scoprendo spazi di leggerezza e di sollievo in un percorso lungo e difficile”.

Elvira, perché hai scelto di fare questo lavoro?

Oggi non potrei fare altro, è per me il lavoro più bello del mondo. Perché è meraviglioso ancora oggi stupirmi di quanto i bambini possano crescere e modificarsi. Credo che sia perché ho la possibilità di godere della parte più autentica del bambino e di sentire, attraverso la relazione di fiducia che si viene a creare, di poterlo vedere crescere e fiorire. Anche quando guardo un bambino particolarmente fragile c’è qualcosa che mi arriva e che mi dà gioia. Sento quel suo talento, quel punto di forza che lo rende unico. E su quello possiamo costruire tantissimo”.

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